Cesare Brandi: testo letterario e testo figurativo

    

Testo letterario e testo figurativo si pongono naturalmente come due formazioni parallele, indipendentemente dal fatto che insistano o no su uno stesso genotipo o per dirlo in modo meno formale ma più corrente, sullo stesso contenuto.

I fatti che sono alla base dell’Orlando Furioso hanno dato luogo al poema e hanno dato luogo a varie serie di illustrazioni del poema: alla radice c’è uno stesso genotipo ma le somiglianze si arrestano qui.

In realtà si può parlare di una serie figurativa anche ignorando quel che rappresenta, può anche non rappresentare nulla, come nel caso tutt’altro che marginale, della pittura astratta, e tuttavia potere affermare che si tratta d’opera d’arte. Ad esempio, su un quadro famoso, come la Tempesta di Giorgione, si sono accavallate le ipotesi su quale possa essere lo schema narrativo su cui si fonda: nessuna di queste ipotesi resiste al vaglio critico, ma il quadro si fruisce ugualmente. Certo, anche di un testo letterario è lecito asserire lo stesso: si può dissentire ad esempio su qualche allegoria dantesca e ciò nonostante concordare sulla valutazione estetica della poesia, ma in questo caso, come in altri (si pensi solo alle difficoltà interpretative di Mallarmé) c’è sempre un’interpretazione di superficie, che, riprendendo una terminologia della più recente linguistica russa, si può chiamare del fenotipo e che non può mancare, altrimenti, nell’incomprensibilità assoluta del testo, cessa anche l’apprezzamento estetico. Ma per la letteratura è un caso limite, assai più eccezionale che nel caso della pittura astratta: continua tuttavia il parallelo fra testo letterario e testo figurativo.

In realtà il contenuto, e, per meglio dire, come l’abbiamo chiamato, il genotipo, o la soggiacente struttura profonda, rappresenta per il testo letterario un’emergenza prioritaria, mentre è secondario nel testo figurativo. Anche nel caso di uno stesso soggiacente genotipo, come per il testo e le illustrazioni dell’Orlando Furioso, posso benissimo ignorare che i due giovani rappresentati siano Angelica e Medoro, cosa che non posso ignorare per la poesia, per cui anzi la poesia reca l’identificazione in se stessa. Ma si dirà: si ignorino pure che i nomi dei due giovani amanti sono Angelica e Medoro, risulterà tuttavia che sono amanti, e questo allora è il vero genotipo che sta alla base della rappresentazione. Ma in questo modo cessa il collegamento con una vicenda determinata: nel poema, il fenotipo – la vicenda come si articola – è anche il genotipo: è assolutamente impossibile ridurre Angelica e Medoro ad una vicenda generica, in cui non compaia Orlando né Cloridano né tutto il resto della storia cavalleresca.

Insomma noi abbiamo preso coscientemente una strada sbagliata per dimostrare due punti essenziali: che per un’opera d’arte, non si può fermarsi nè fondarsi sul contenuto, e che, quello che più sembrava, sulla scia della linguistica, possibile per la poesia, lo è solo perché la poesia è legata indissolubilmente al linguaggio e il linguaggio proietta sulla poesia la sua struttura.

Ma la struttura del linguaggio, come viene perseguita dalla grammatica generativa più avanzata, quella di Šaumjan, può dar conto del linguaggio non della poesia. Per rendersi conto di questo occorre un approccio assai più stratificato, occorre rivolgersi alla poesia con gli utensili d’un’altra linguistica, quella di Hjelmslev, che offre il modo di sezionare il dato linguistico, e, in questo caso, poetico, separando il piano dell’espressione da quello del contenuto, e suddividendo l’uno e l’altro in due strati, la forma e la sostanza.

La possibilità di sceverare gli strata non significa che ognuno possa stare per conto suo: ma si riproduce lo stesso fenomeno di analizzabilità e di inscindibilità che è tipico della basilare istanza linguistica: significante e significato. Per il testo letterario la difficoltà sta nel determinare, data l’inscindibilità dei due livelli di espressione e contenuto, quanto e fino a che punto il contenuto è inscindibile dall’espressione, sia indispensabile per il fatto artistico, ossia, come diremmo con nostra terminologia, per l’astanza, e cioè la presenza che realizza alla coscienza l’opera d’arte.

Cominceremo con alcuni esempi. Nell’Amleto il sottofondo della vicenda è praticamente lo stesso che per Oreste: ma che cosa conta per la fruibilità dell’Amleto come opera d’arte questo possibile rimando alla vicenda degli Atridi? Una coincidenza del genere è in realtà irrilevante: neppure a livello dell’asse paradigmatico costituisce un ascendente rilevante: semplicemente non è un ascendente. Questo vale a dire che in ambedue le vicende il genotipo è identico e non influisce sulla valutazione estetica della tragedia intesa come fenotipo di quel genotipo. La performance, se si vuole usare una diversa terminologia, è al tempo stesso legata e indipendente dalla competence. Ma si potrà osservare: se la situazione familiare di Amleto fosse diversa, diverso sarebbe anche il dramma: non si può alterare un particolare della vicenda senza alterare anche il dramma. Dunque la vicenda deve esser valutata a livello di performance, o come diciamo noi a livello di astanza. Ma la indissolubilità di dramma e vicenda non è diversa da quella di significante e significato: come con la stessa parola io potrò ordinare la spesa o farne la componente di un verso, così la vicenda è indissolubile, perché geneticamente indissolubile, non perché di per se stessa faccia poesia. Ma insistiamo ancora: con la stessa vicenda o dell’Amleto o dell’Agamennone, posso confezionare un film o dei cartoni animati, ebbene ognuna di queste performance non avrà niente in comune con l’Amleto o con Eschilo pur avendo al limite, tutto in comune. Quindi il genotipo come struttura profonda di un’opera letteraria, funziona come appunto una struttura profonda che può dar luogo a espressioni equivalenti sul piano del contenuto ma indipendenti dal punto di vista dell’astanza.

Questa situazione non è privilegio dell’opera d’arte letteraria, anche se in questa sia particolarmente accentuata. Forse che il Barbiere di Siviglia di Paisiello o quello di Rossini sono diminuiti nella loro originalità di melodramma dal fatto di derivare dalla commedia di Beaumarchais?

E insistiamo più da vicino: forse che Eschilo o Sofocle inventavano i miti su cui imbastivano i drammi?

In altro campo, l’invenzione melodica può essere ripresa tal quale e non determina uno scadimento della musica: si pensi ai temi che Bach riprese da Vivaldi e Beethoven da Mozart.

Non certo per questo il chiaro di luna di Beethoven che deriva dal 1° atto del Don Giovanni perde un attimo di originalità. E qui siamo in un campo diverso: qui non c’è più insistenza su uno stesso genotipo, ma addirittura si sale a livello di forma, di espressione cioè. Qui, allora, diciamolo subito, è facile accorgersi che il motivo melodico ripreso scende appunto al livello di genotipo: la sua rielaborazione è performance di una performance che scende a competence. Quindi non siamo riusciti a recuperare un’obbiezione valida alla regola che il valore estetico dell’opera è indipendente, anche se legato, dal genotipo da cui discende.

Noi siamo costretti ad andare per sommi capi, ma dobbiamo pure rispondere ad una domanda: le ricerche volte ad appurare l’asse paradigmatico da cui discende una vicenda, soprattutto in un testo letterario, saranno allora inutili, dato che non interferiscono a livello di fenotipo o di performance dell’opera di arte? Orbene è chiaro che queste ricerche, mentre potranno dare ragione di determinati particolari, si collocano a livello di forma del contenuto, specificano, al di sotto dell’opera d’arte, e la fondano storicamente, il che non è né inutile né voluttuario in quanto che l’opera d’arte è allo stesso tempo opera d’arte e monumento storico, e, sotto questo punto di vista, deve essere indagata, sempre tenendo presente tuttavia la differenza di livello a cui la ricerca avviene, rispetto all’opera d’arte. È bene chiarire allora fin da questo punto quello che costituisce una scienza di moda, l’iconologia. Questa, rivolgendosi ai “significati” che l’opera cela in sé, si riferisce chiaramente alla matrice stessa della vicenda o della rappresentazione: come l’allegoria, del resto, e la lettura che nel Medioevo si faceva della Scrittura a quattro livelli (letterale, allegorico, morale, anagogico). Ossia i sensi nascosti come l’allegoria o comunque la struttura simbolica appartengono chiaramente ad un antefatto dell’opera d’arte, che li riceve nella sua formulazione: ma appunto rappresentano una struttura profonda dell’opera che alla superficie, come fenotipo, dissimulerà. Ma è chiaramente una struttura profonda che non si può equiparare completamente a quella che sottofonda anche la frase più semplice che noi pronunciamo, perché in questo caso la struttura profonda è la matrice stessa della trasformazione in fenotipo, né questo esisterebbe senza struttura profonda, mentre l’allegoria o comunque l’ordito simbolico di una opera d’arte non la produce direttamente, e questa, a rigore, potrebbe anche farne a meno nel senso che ne sarà certamente determinata ma non originata. Ad esempio quando Beatrice compare a Dante nel Purgatorio potrebbe benissimo non essere vestita di bianco rosso e verde, colori delle virtù teologali, che rappresentano allora una surdeterminazione del personaggio, il quale è a sua volta allegorico, ma la cui riposta struttura profonda è la Beatrice che Dante conobbe da giovinetto più che la scienza del divino o che altro possa rappresentare nell’ordito simbolico del poema.

Insomma noi non diciamo davvero che uno studio filologico dell’opera d’arte non sia utile e necessario, uno studio cioè che parta dalla congiuntura storica in cui ebbe luogo l’opera d’arte, e indaghi il sottofondo, se ce l’abbia, dell’opera stessa, e conglobi un’indagine che, per l’opera letteraria, va dalla particolare lingua che l’autore usa ai sensi riposti che vi ha collocato; tutto ciò è utile anzi doveroso, ma una volta fatto questo, va mantenuto al livello giusto che è quello del contenuto e non farne una specie di motivazione dell’opera d’arte come opera d’arte. Al punto che questi sensi riposti potranno anche essere ignorati e l’opera d’arte essere fruita lo stesso come opera d’arte.

Le osservazioni che precedono introducono il dubbio se possa o no l’opera d’arte letteraria essere utilmente letta con il metodo trasformazionale, quello di Chomsky o quello di Šaumjan. Quando noi abbiamo parlato per analogia di struttura profonda per l’iconologia e l’allegoria, in realtà non intendevano equiparare questa struttura profonda a quella che sottofonda qualsiasi enunciato e che è coestensiva alla lingua in ogni momento. L’allegoria e l’attrezzatura iconologica in realtà rappresentano ancora, per quanto interne alla rappresentazione letteraria, un aspetto della performance e non della competence: si pongono interne all’immagine letteraria come il significato è interno al significante, ma senza che dal significato-allegoria si possa risalire ad una struttura profonda, più profonda dell’allegoria o del contesto iconologico. La teoria trasformazionale chomskiana o quella applicativa di Šaumjan ammettono che da una data struttura profonda si possano avere enunciati equivalenti per il senso anche se non identici di significato, ma un’opera d’arte letteraria non è opzionale, non può esser detta in altre parole o costrutti di come è scritta. In realtà l’autore stesso corregendo l’opera non la cambia o ne fa un’altra, come accadde al Tasso con la Conquistata, le cui correzioni non passarono nella Liberata, rimasero di lato in un’opera scarsamente vitale. Il Manzoni nelle varie redazioni del romanzo si avvicinò gradualmente a quell’optimum che intendeva raggiungere, ma una volta risciacquati i panni in Arno, lo lasciò immutato. La traduzione stessa di un’opera d’arte letteraria è sempre approssimativa o addirittura impossibile come per la poesia, in cui è più quel che si perde nel trapasso di quel che si salva.

Né la possibilità di una traduzione a livello elettronico che gli studi sulla struttura profonda dovrebbero assicurare, può assicurare altro che un trapasso di “quel che l’autore volle dire” ma non del “come l’ha detto”.

Perciò gli studi delle grammatiche generative, per importanti che siano nella linguistica, battono inutilmente al piede dell’opera d’arte letteraria che per essere composta di parole sembra rientrare di diritto nel loro campo d’azione. Senza dire che se per l’opera d’arte esistesse qualcosa da paragonare alla struttura profonda, dovrebbe esserci per tutte le opere d’arte, dalla musica, alla pittura, all’architettura. Ma questo nucleo generatore tante volte cercato dilegua appena si creda di impugnarlo, proprio perché non esiste ed è un miraggio inferto dal parallelismo con la parola.

Per l’opera d’arte bisogna attenersi alla performance; tutti gli strati di competence che si potranno risalire sono precedenti al suo conio in immagine inalterabile.

Ciò non significa affatto affermare che l’opera d’arte in quanto tale non possa analizzarsi proprio in quello che la fa opera d’arte, ma che sarà interno a lei stessa. Appunto per questo abbiamo proposto l’analisi nei quattro strati sceverati da Hjelmslev, perché con questa analisi sarà possibile recuperare, ma al giusto livello, gli elementi analizzabili di un’opera d’arte. Senza tuttavia dimenticare che un’opera d’arte è una struttura, dove tutto si tiene, e dove contano le relazioni fra le parti più che le parti stesse. Si determina un campo di forze in cui l’analisi potrà penetrare fino ad un certo punto, proprio perché contano le relazioni fra queste forze, che sono qualitative e non quantitative. E tuttavia non sarà un’analisi inutile o necessariamente imperfetta, se sarà condotta in modo da rivelare dove queste relazioni si formano e come agiscono, anche se sarà impossibile arrivare al perché quelle relazioni diano un risultato bello o come noi preferiamo dire, portino all’astanza.

da Attraverso l’immagine – in ricordo di Cesare Brandi a cura di Luigi Russo
     
       

    

In apertura: opera di Natalia Bondarenko

    
     
    

 

Lascia un commento

Crea un sito o un blog gratuito su WordPress.com.

Su ↑